Rido e non rido e non so cosa dico.
Non è un gioco ed è serio questo divagare al nero di seppia che mi dice di tornare indietro A quando gli occhi erano anime che mi chiamavano alla vita Ricordi? noi ridevamo... e qualcosa sfuggiva Noi eravamo spruzzi di piscina e scherzi e devastanti schernite ma eravamo noi... noi sigarette fumate del tempo mentre il resto dormiva. |
Sei tu a decidere come inquadrare le cose: tu e nessun altro.
Potrai far tuoi gli scorci, i sentimenti, i significati, facendogli attraversare i tuoi confini. Scegli di essere immagine di quei paesaggi che sei riuscito a trattenere, di quell’idea stravolta, ruotata, folle, che ti sei fatto di te stesso. Scegli di essere una cornice ampia: fai entrare nel tuo perimetro quell’onda devastante che è la vita, e quando lotti per non annegare, cerca l’isola dove attraccare, non la boa. |
LISBONA Percussioni di birra traslate sulle mie dita, nella solitudine alcolica di alcove senza te. Strozzato di ironia, torcendo colli di bottiglia e denigrando notti e bassi e contrabbassi d'insensata nostalgia. Suono le armonie di una distanza, turbini di genio spalmato in melodia. E gli abissi gridano tempesta, accordi dissonanti nella metrica e misura delle distanze da te. Lisbona mi dico.....e grido. Lisbona sussurro....e rimpiango. Sassofoni e flauti di fiato sprecato. Sono la disgrafia del freddo che fa tremare le mani; il veleno di logori intestini divorati di acini e ricordi. E la luna mi ama.... lei sì, lo fa sempre con me, l'amore. Prima che sia giorno, che sia domani e dopo e arrivederci. Lei conosce l'incanto d'argento che trafora le notti; lei annaspa di tenebre e sussulti.... orgasmi dipinti di rotonde occasioni. Il sonno è la mia chiave di volta. Narcolessie regolate da visioni deformi che si fanno geometriche e misurabili. Ed io le conto, le incanto... in parole affogate di bianco. Poiché voglio il disegno sulla pelle albina e consumata, delle suggestioni improvvise, che hanno affranto i miei occhi. Prendile... osservale... portale via. Sono una galleria di immagini stravolte e di quadri di idee appesi ad un chiodo di rinunce. Tu pensi, io penso, ed io sono e tu non sei, perché nulla in me riesce a trovarti. Dannata fantasia! Io ti trafiggo con la penna, perché ti entri in circolo l’inchiostro, e le tue vene esplodano del petrolio, in grumi di discorsi. Io e te: idee decisive di un pentagramma senza autore. Ah tu! Tu manchi alla mia nostalgia di sorrisi, di tristezze irragionevoli, di passi nella città vuota e stracolma, abbattuta di sole. Manchi al centro delle foto che scatto, ai ritagli di memoria, che assorbono il vuoto come carta grezza. E alle mie labbra manca il tuo nome, spento come una sigaretta, bruciato dagli eventi, consumato dall’ira. E’ fermo e non si lascia pronunciare, morto di freddo con il passare dell’inverno. |
Se vorrai sapere dovrai avere la pazienza di ascoltare il mio silenzio. Sarà lui a svelare la verità, consumata dalle parole e dal teatro che faccio di me. Se vorrai percorrere le mie strade senza fine dovrai incamminarti senza chiederti dove esse portino. Navigare senza barca, volare senza ali, questo è il viaggio, questo sono i viaggiatori. Esiste una geografia del perdersi che articola in tessuti elastici i propri confini, che perde forma e cambia. Esiste una mappa sconfinata che ci porta nelle stanze da cui usciremo cambiati. Esistono le risate sguaiate, i gesti inopportuni, l’orrore. Esistono perché si detestino al punto di volerli coprire dello spergiuro finto e magnificente dell’arte. Esistono perché il meglio debba ancora venire, irraggiungibile e perfetto, ossessione costante.
Qualcosa in me si rivolta, lo annoto sulla parete sbeccata del vaso riposto a contenermi.
Ed il corpo è un’urna di silenzio, non replica, non si accovaccia, non freme.Così l’eleganza è diapositiva immobile della memoria di me: ritratto mai scomposto di un’azione inesplicata, di parole taciute riversate in rivoli sul pallore della pelle. Trapunte d'anima e d'inchiostro,sono queste le mie pagine...saliva di parole non dette,taciute...esalate come morte.
Ed il futuro è nel fiore introverso, nel tulipano di nostalgia. E’ il labbro spaccato che sgorga sangue dall’esatta distanza da te. Ed io sono il nulla, dipinto dalle setole di collera della tua rappresentazione di me. Non mi manchi amore mio, è la musica a mancarmi, l’orchestra dei lamenti, dei latrati, dei silenzi, che ho incassato nel petto per te. Vorrei strapparti un ballo dai fianchi, dalle braccia che come giunchi si flettono nella fuga di una danza immaginaria. E tu... trottola attanagliata nei pensieri. Tu che giri scalfendo le strade, mentre io ancora ti cerco. Torna ad uccidermi, io ho bisogno di morire per te. Ho bisogno che le stelle si rompano sull’asfalto come ceramiche lisce di sogni scheggiati. Il vento ed il pensiero di te; la primavera che torna... un rintocco violento. Sto correndo, sul treno all’indietro, nella galleria di un passato scavato e macerato di disprezzo. E tornerei sulle piazze a degustare la malinconia, e la solitudine, e l’esilio... se questa malinconia e solitudine ed esilio fossero in qualche modo rappresentazione di te. Scalpo di fossette e sorrisi tradotti in rabbia, odio, disincanto! Raccolgo le impressioni su cassette dal nastro consumato. Non ho giocato all’amore, lo giuro, ho solamente sognato questa volta, piegando le carte del destino nell’irreversibilità di una forma distorta. Lasciami il sonno e la noia: non ho altro; altro che il ricordo... delle parole, delle arance, delle finestre dipinte, e del mare che mi riempiva di rumore. Forse fingo ancora, ma forse la finzione mi attraversa più di una mano nelle piaghe del costato. Ed il sole mi nausea; così ti cerco nei seminterrati, nelle penombre, laddove non c’è un raggio che arrivi a fendere la notte. Le lampadine divorano il tungsteno distruggendo la luce fioca che mi avvolge. Ed io felice del massacro rileggo le pagine inchiostrate al mattatoio delle verità inscenate dall’angolazione deforme della visione di te. Il cuore non pensa, è una noce profanata dai vermi, sa essere solo una risacca di emozioni intrappolate, cucita ad arte dalla voglia di raccogliere. Ed io lo suono come una cornamusa, gonfiandolo e sgonfiandolo di parole, perché risponda come un contrabbasso scavato nel legno di quercia delle verità più intime e mai conosciute. Sa far male anche quando ride, forse perché batte, perché ha in seno il fardello della vita; ma del resto cosa resta senza questa grancassa altoparlante di suggestioni raccolte nei vicoli di universo? Un bicchiere in frantumi, di schegge impazzite, che rintoccano il flusso indefinito di profonde distanze. Raccolgo l’urto, lo ricevo dalle tue mani ferite dai tagli da carta tracciati dalle mie parole. Sono veleno, che passa nelle vene, gonfia le arterie, dilaga. E muovo un esercito di marionette allucinate dal profumo della mia fantasia. Tutto distruggo: dal bicchiere, alla carne, all’anima delle cose. Sono il dardo per la colomba, il rasoio per il suicida, il coltello per l’assassino. E vedo deserti, generati dalla mia azione imperterrita, di tempesta e onnipotenza. Se il vuoto fosse una stanza potrei abitarlo ed esimermi dal viverlo. Lei era bella quella sera, prima che la invecchiassi, e che il banco di accuse che muovo verso me stesso si stanziasse fra i nostri corpi, costringendomi ad una ballata di parole necessarie. Le arance si sono aperte come ferite... sono tornate, ad appesantire di ricordi, le fronde secche intrecciate della mia memoria. C’è un giardino di giorni segreti che riposa. Tu lo ricordi; io lo ricordo. Sulla panchina vuota su cui siedo parlo di te con la tua assenza. Il respiro di Roma schiacciata di freddo e di nuvole, in un mantello grigio sopito. Tutto si lascia raccogliere in un globo arancione di aspri profumi... destinato per gravità della vita a soccombere a terra, in un marasma disintegrato di riflessi perduti. |
SAN LORENZO
1)
Qualcuno doveva aver truccato le stelle quella notte, o averne dipinte di nuove, perché il cielo mostrasse un profilo insolito, una parvenza magnetica, che sviasse i naviganti verso sconosciuti orizzonti. Qualcuno doveva aver espresso il desiderio di perdersi fra le distese di sale riunite dal fitto mantello delle acque, per interrogarsi sul destino od inalarlo issato sul fragile collo dell’albero di una vela. Qualcuno voleva fermarsi, come il ticchettio di un orologio smarrito, nella melma di penombra che improvvisa il solco di una barca, nel largo di caverna del mare profondo. Fu forse il destino l’artista di quel prodigio, scultore di entusiasmi, pietra miliare delle sorti; vestito di tutto punto per professare occasioni nella lotteria ironica e caotica della vita. “Una notte...un uomo...una voce”, sembrava sussurrare la terra. Alberto pensava nella lingua dei poeti acerbi, la lingua delle parole sigillate nel petto, che nessuno scarta, che nessuno aspetta, che nessuno teme. Sentenziava fra le ossa lettere non scritte, deponendole in ripiani di attesa senza fine. Tirò a fatica lo scafo lungo il sentiero di sabbia che si sforzava di trattenere i suoi passi; solo: verso un mare di inchiostro reso perlaceo dai riflessi di luna e di stelle che si attaccavano alla patina plastificata dell’infinita superficie a fronte. Poi un rapido salto, uno slancio dell’abitudine per portare tutto se stesso in direzione del vento e di una libertà sotto scacco del tempo, per un’illusione a ritroso che lo avrebbe riportato a riva, esattamente da dov’era partito, l’indomani. E’ ragionevole pensare che volesse godersi ad una certa distanza dalla terra quel cielo imbizzarrito di varianti. Una stella rossa disegnava lingue di fuoco come una fenice determinata a non risolversi in cenere. Una nera, come la pece, si nascondeva furtiva nella volta celeste. Ed una bianca, come il leviatano di Melville, arpeggiava un canto di sirena acuto come una punta di spillo. Quelle restanti dipingevano una tela astratta di surrealismo cosmico, come un fiume d’arte sfociato nella piena di un turbamento ultraterreno. Rum, tempo, vele, rincorsa. Ebbro come il battello di Rimbaud verso una vista, una prospettiva, per sbirciare dalle viscere primordiali del mare l’incanto di una suggestione perfetta. Quando la costa negò ai suoi occhi il suo voluttuoso profilo di donna, Alberto gettò l’ancora, fino a sentirla scricchiolare di paura, intrappolata nella morsa tagliente degli scogli. Smise di ascoltarla, destinando la sua commozione a quel canto insistito di stella, riflesso albino dell’anima che il liquore bruciava in sorsi. Rimase ore a contemplare la mano della natura restaurare l’architettura di certezze cui l’umanità sembrava essersi assuefatta. Colori, musica e piccole oscillazioni, nel rollio cadenzato della superficie levigata del suo “legno”. Sciocco e stordito come un’anima fragile a pregare il cielo di fargli dono di parole nuove. Le parole sono reti in cui le passioni sono solite incagliarsi; intrappolano e trattengono l’amore senza esporsi al brutale esercizio della forza. Sono una potenza silenziosa, esplosioni senza strepito, prigioni senza sbarre. Lui stesso era tempo addietro caduto nella ragnatela di aggettivi e lusinghe tessuta da una donna, per carpirne il cuore e gettarlo nella pozza umida delle lacrime sgorgate. Ne aveva allora tessute di nuove, di trasparenti, di elastiche, per ricambiare il favore ai sentimenti che con il tempo bussavano alla sua porta dietro la maschera di nomi femminili. Ma la botte di inventiva si svuotò poco a poco, finché le sue unghie non raschiarono il fondo e le trame si estinsero come dinosauri sotto la scure del tempo. E allora era lì, come un mendicante alla fiera del prodigio, ad aspettare un tributo di parole che colmasse di nuovo la botte disossata dei pensieri. Venne, avvolta in una nuvola di sospiri e di lamenti non dissimili a latrati, condensati in polvere grigia e triste, un barca nera con a bordo tre uomini. Gettarono un’ancora enorme che raschiò il fondale facendolo gridare di dolore, sanguinante di sabbia e forato di scogli. La terra risentì del peso dell’attracco in un brivido che alzò la marea per qualche istante. Il primo uomo salì sulla barca di Alberto, fissandolo con il suo unico occhio di una trama indefinita di colori; sembrava un caleidoscopio di diapositive infinite. Nel fissarlo Alberto rivide in un lampo la breve ed incredibile sequenza della sua vita: ventotto anni in un unico battito di ciglia. Il secondo fece altrettanto: issatosi sulla barca si sedette in silenzio, serrando le orecchie fasciate da una garza bianca e sanguinanti, con la pressione dei palmi delle mani. Il terzo occupò l’ultima, minuscola porzione di spazio rimasto, avvolto in un mantello porpora. Le sue labbra erano serrate da un filo spesso che le aveva trapassate da parte a parte, prima di ricongiungerle in un definitivo silenzio. “Chi siete?” chiese Alberto senza alcuna paura, ancora in preda all’ebbrezza dell’alcool e agli effetti di quel sogno cosciente di rara follia. Nessuno dei tre rispose. Alberto tentò di nuovo, ponendo forse la domanda più appropriata: “Cosa volete da me?” “L’ultima goccia delle tue risorse, la lungimiranza....” disse il primo. “Il cuore della tua essenza, la smielata armonia...” aggiunse il secondo. Il terzo, che non poteva aggiungere altro, si scagliò sul ragazzo forzandone le mascelle fino a farle spalancare. I due accorsero immediatamente e lo trattennero per le braccia. La mano del muto abietto attraversò la gola del ragazzo fino infondo, laddove si trovava la Voce, la custodia preziosa delle parole che qualcuno aveva collocato ai primordi alla destra del cuore. Legarono il ragazzo ed aprirono lo scrigno davanti ad i suoi occhi. |
2)
Il primo afferrò un occhio di vetro, estrasse la benda e lo strinse nell’intercapedine ruotandolo come una vite. Il secondo prese una minuscola campanella d’oro, la fece vibrare vicino ai timpani che cessarono all’istante di sanguinare e gettò in mare le garze che cingevano la testa tutt’intorno. Al terzo toccò un grezzo coltello con il manico in osso. La lama spezzò il filo permettendo alle labbra di schiudersi in due rive opposte, accompagnandole in un ruggito di gioia furibonda e selvaggia. E così si allontanarono, scomparendo come una tempesta di rumore assordante. Alberto rimase solo, come molti di noi rimangono di fronte alle avversità; noi tutti...fragili ed interdetti al cospetto del prodigio straordinario delle variabili esplicate dal destino. Fu così che per la prima volta, da quando la terra decise di girare sul suo asse a ritmo cadenzato, una creatura fu depredata della sua Voce. Alberto prese a recitare il suo silenzio nel disperato tentativo di emettere anche solo un sibilo dal tessuto cavernoso della gola. Ma nulla voleva parlare, nessun suono sotto l'archetto dell'ostinazione uscì dallo sfregare forzato sulle corde inermi che rifiutavano la tensione. Un violino muto, il più perfetto, lo strumento dell'infinita immobilità dei pensieri. E Alberto fu risonanza della disperazione più assoluta: l'incapacità di condividere cui ogni essere umano tende. Si abbandonò ad un sonno profondo mentre il cielo si rimpastava dei suoi colori, e le onde, benevole, sospingevano quel guscio di noce a piccoli colpi verso il giaciglio sicuro della riva. Si risvegliò all'alba profumato di vento e di sale, sporgendosi pian piano intimorito, senza abbandonare la barca. Fu così che vide per la prima volta, al riparo da ogni sguardo, sbirciando come un ladro, una ragazza dai lunghissimi capelli biondo cenere, molleggiare su uno scoglio avvolta in un morbido e rigonfio vestito bianco. Esile, minuta e bianca come solo le stelle possono improvvisarsi; un capolavoro di grazia, un'icona di bellezza puerile illuminata dei primi timidi, rosati raggi, di un sole risvegliato. E fu così che la vide riversare fiumi di carta inchiostrata, flussi di parole, dalla gonna di cigno che pian piano si sgonfiava, adattandosi alle gambe, adattandosi al suo corpo come solo i petali sanno fare. E intanto la piena straripante di carta, appesantita dalle acque, si andava a depositare sul fondale abbandonando la superficie, inghiottita dal mare, divoratore di sogni e di parole, che fagocitava l'intento, lasciando sparire le tracce. Ed ella restava a guardare, cingendo con le due lunghe braccia le ginocchia al petto, adattata allo scoglio come un gabbiano, cantando una filastrocca che accompagnasse il gesto, con la sua voce di fanciulla ancora vergine delle insidie della vita. "Scivolate, parole, nel giaciglio tenero delle acque; Portate il messaggio, sancite la distanza, unite i cuori con la resina densa dell'amore profondo. Siate il miele che attenua l'amaro della vita. Non tradite, non professate... vagate di bocca in bocca superando le apparenze, sfregate le labbra dei mortali perché sia il sorriso a sospingerne la via. Aggrovigliatevi senza fraintendervi, come una treccia ordinata di pensieri. Siate un’unica molteplice forza. E poi tornate qui, dove nulla ha senso e tutto passa. Confondete e articolate il significato vano delle cose. Perché tutto passi, senza dolore alcuno.” Era una verità, cantilenata come frase di poco conto. Ed Alberto ascoltava, come chi apprende un grande segreto e non trovi custode atto a condividerlo. Sentiva il peso di questo scrigno, questo fardello mistico di rivelazioni srotolate. Passarono i giorni, e le notti: la Voce non tornava. Ma, puntuale come il sole che sorge, ella tornava ad omaggiare ogni alba e a riversare parole nel letto d’acqua sgonfiando i petali bianchi della sua gonna morbida. Alberto decise un giorno di tuffarsi dopo che ella se ne era andata via come uno spettro, come del resto sempre faceva, fluttuando sulla spiaggia e dissolvendosi oltre la linea dell’orizzonte. Andò a cercare sul fondale il cumulo di parole riversate, per raccoglierle una ad una. Nessuna di quelle tracce inchiostrate scoloriva sotto l’azione dell’acqua. Risultavano leggibili, come fossero state deposte e raccolte in un cassetto. Fu così che capì di scorrere i pensieri dell’umanità, uno ad uno, come fossero l’enciclopedico volume di una sola incommensurabile ed affollata moltitudine. Apprese la gioia ed il dolore del mondo come mai aveva fatto prima, sentì lacrime e sorrisi da dentro il petto, battere, levigare le sue sensazioni. Qualcosa stava scolpendo la sua interiorità come fosse marmo, facendone assumere delle sembianze beatamente immortali, rendendolo un’opera d’arte di conoscenza. Non riuscì per molto tempo a staccarsi da quella grande possibilità, spiò il mondo da quella toppa stretta, risolvendosi a guardarlo da fuori. Pescava, dormiva sulla barchetta, aspettava. Un nuovo cielo stellato, dei pensieri struggenti, l’arrivo di lei... così invecchiava, giocando a nascondersi da una vita mortale che non lo affannava ormai più. Lei, e quei riflessi d’oro, la voce di cigno, la vita stretta: voleva parlarle...se solo avesse potuto! Non una ruga sul suo volto! E di anni ne erano passati, tante lune avevano lasciato spazio al cammino del sole, tanti pensieri avevano afflitto, invaso, rinnovato gli uomini nelle loro azioni. Fu nella notte di S. Lorenzo, quella in cui ci si aspetta che le stelle cadono, ed invece restano lì, irraggiungibili come sempre, che la Voce tornò, reduce di tante parole gelosamente custodite. La sentì scavare la gola e fluire come uno sciroppo denso, attraversare tiepida e lenta il corpo, fino a riversarsi nella punta delle dita. Alberto sorrise come sorride un vecchio pescatore e attese l’alba senza ascoltarsi. Lei tornò, ma il suo abito questa volta era perfettamente succinto, neanche un soffio ad attraversare la corolla ordinata della sua gonna. Si avvicinò per baciarlo, come se lo avesse sempre visto lì, come se non fosse stato nascosto come pensava di essere. Prima che potesse emettere un suono, adesso che le sue note erano impastate di voce, ella lo avvolse giacendo con lui sulla spiaggia fin tanto che il sole non prese coraggio e si fece più insistente. Poi scomparve lasciando un ultimo foglio, tirato fuori dalla distesa di capelli sciolti. Alberto lo lesse, versò una lacrima, si raccolse in una conca di sabbia, sussurrò un addio in ultimo sospiro. E si dice che da allora sia un fanciullo, ogni notte a S. Lorenzo, a raccogliere quell’ultima parola, in una bottiglia rotta di silenzio, aspettando che le stelle cadano dal cielo. |
Devo dunque scegliere fra lei e l’infinito, fra l’azione ed il sogno.
Devo scegliere se riposare nel torpore immateriale dell’amore o esplicarlo nel gesto violento di coglierlo.
Far acquietare i sensi o farli fremere?
Scelgo la menzogna alla verità, il racconto, la novella frivola di una fantasia, perché la sensazione non si ritrovi lesa, spezzata in un angolo, ingrigita dalla luce abbagliante che la realtà rappresenta.
Scelgo di proteggere l’amore, di custodirlo, conservarlo.
Il mio silenzio è un racconto infinito, è un gergo elegante, una ricercatezza leziosa.
E’ il silenzio dei popoli, in infinite somme, riposto a raccontare la scelta del “non dire”.
Non basterebbe la biblioteca di Alessandria a contenerne tanto.
E’ il volume, la portata di parole taciute che rigonfia il cuscino del sognatore.
Assordante, frastornante, aspro, veritiero, raccoglie il distillato vitreo dei rimpianti.
Per avere bisogna agire, ed agire è parlare, esprimere. E tuttavia non dissomiglia alla menzogna il raccontarsi, è la versione spuria della verità che abbiamo omesso di dire.
Un’ode ai suoni muti, agli sguardi rubati, alla poesia del desiderio.
Un’ode all’incanto trattenuto del perdere le passanti, del vederle scivolare.
Esistono amori che catturati, legati alla corda di sé, morirebbero fra le dita, spenti nel fumo di un abbaglio.
Amare è non pretendere, è nostalgia.
La musica aggiunge quel che da soli tendiamo a voler privare al nostro desiderio d’incanto: il grido del contesto, la pienezza totale di un’ebrezza smodata, il richiamo fuor di controllo della barbarie che ci scorre nelle vene. E se tu sei musica accorri, adatta il profumo all’estasi dei sensi attoniti, agli occhi rivolti, rovesciati,perduti nella cava dell’udito sotto assedio.